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LE ISTITUZIONI PENITENZIARIE



Le istituzioni penitenziarie sono quelle istituzioni che svolgono la funzione di neutralizzazione e rieducazione del reo, ovvero di un individuo che ha messo in atto un comportamento non conforme alla legge. Tale individuo viene rinchiuso all'interno di una struttura carceraria per un determinato periodo di tempo, calcolato in proporzione alla gravità del reato commesso, in modo da neutralizzare il pericolo che egli rappresenta; all'interno della struttura viene anche messa in atto la funzione di rieducazione, detta anche “recupero sociale”, così che il reo possa essere, al termine della sua pena, reinserito nella società.



Le istituzioni totali


Le istituzioni penitenziarie rientrano nella tipologia delle istituzioni totali: questo termine, coniato dal sociologo canadese Erving Goffman, sta ad indicare istituzioni all'interno delle quali gli individui sono tagliati fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo e si trovano a condividere una situazione comune. Questo genere di istituzioni è caratterizzato da un'amministrazione che controlla pienamente i soggetti istituzionalizzati e che si impadronisce completamente delle diverse dimensioni esistenziali, unificando in un unico luogo e sotto un'unica autorità tutte le attività quotidiane, privando l'individuo della normale libertà. La conseguenza di ciò sono l'impoverimento e la degradazione dell'identità personale e una vita sociale limitata ai rapporti con lo staff, dal quale l'individuo “prigioniero” prova a difendersi cercando di ritagliarsi piccoli spazi personali.

Può dunque succedere che l'individuo non sia in grado di identificarsi con l'istituzione nella quale si trova, mettendo in atto quelli che Goffman chiama “adattamenti secondari”: comportamenti istintuali atti ad ottenere una soddisfazione proibita e dalla natura vagamente sovversiva, che possono manifestarsi sotto forme diverse:


  • Il ritiro dalla situazione: L'individuo riduce la propria partecipazione alla mera soddisfazione dei bisogni primari;

  • La linea intransigente: L'individuo sfida l'istituzione rifiutando apertamente di cooperare; ne consegue un'intolleranza costantemente espressa e uno spirito individualistico; paradossalmente, dal continuo rifiuto dell'organizzazione ne deriva un profondo coinvolgimento; un esempio di questo stile di adattamento può essere osservato nel comportamento di McMurphy nel film “Qualcuno volò sul nido del cuculo”;

  • La colonizzazione: La parte di realtà che l'istituzione fornisce all'individuo viene da quest'ultimo vista come tutta la realtà; viene perciò a formarsi un'esistenza stabile e relativamente felice basata sulle soddisfazioni che l'istituzione può offrire sfruttando tutti i possibili vantaggi ottenibili;

  • La conversione: L'individuo assume su di sé il giudizio che lo staff ha di lui e tenta di recitare alla perfezione il proprio ruolo, comportandosi con disciplina e mettendo a disposizione dello staff il proprio “entusiasmo istituzionale”; questo tipo di comportamento veniva adottato, per esempio, da alcuni prigionieri nei campi di concentramento, finendo per adottare il vocabolario e l'aggressività della Gestapo.


Questi adattamenti secondari possono anche essere un esempio di quello che Goffman denomina “circuito”: l'internato non può difendersi dagli assalti alla propria identità nel modo abituale, ovvero stabilendo una distanza tra sé e la situazione, ma si trova costretto ad assumere un atteggiamento “distante” e, a volte, a ricorrere all'arroganza e al risentimento come strumenti di difesa.


Infine, Goffman identifica cinque categorie di istituzioni totali:


  • Le istituzioni nate a tutela di incapaci non pericolosi

  • Luoghi atti a tutelare coloro che rappresentano un pericolo non intenzionale per la comunità in quanto incapaci di badare a se stessi

  • Istituzioni create al solo scopo di svolgere una determinata attività

  • Luoghi atti alla preparazione spirituale per religiosi

  • Istituzioni atte a proteggere la comunità da individui realmente pericolosi


Della prima categoria fanno parte le case di riposo per anziani; alla seconda gli ospedali psichiatrici; alla terza strutture come collegi e scuole; alla quarta istituzioni come monasteri, conventi e abbazie; all'ultima, infine, appartengono le istituzioni penitenziarie, ma anche i campi di concentramento, precedentemente nominati.



Le teorie della pena


Nel corso della storia, molti, tra cui filosofi e giuristi, si sono interrogati riguardo alle pene da infliggere ai trasgressori della legge, ovvero quali tipi di pene possono essere efficaci, giuste o accettabili. Col tempo è sparita la pena di morte, largamente ed esageratamente usata, per esempio, ai tempi di Thomas More (1478-1535; filosofo inglese e, appunto, uno dei maggiori oppositori storici della pena di morte) e si è passati a forme di punizione diverse da quelle corporali (che sono invece state abolite) e più mirate al “recupero” sociale del reo piuttosto che alla punizione fisica.

Esistono comunque varie teorie riguardo alle pene, che possono essere raggruppate in tre categorie:


  • Le teorie retributive

  • Le teorie preventive

  • Le teorie rieducative


Le teorie retributive vedono nella pena un corrispettivo del reato e un modo per ripristinare la legalità violata. Esse sono viste come legate alla stessa natura umana: ogni delitto fa nascere un bisogno di espiazione, che viene scaricato con la punizione dell'autore del crimine. Per questo motivo le teorie retributive vengono viste anche come derivanti dalla legge del taglione, “occhio per occhio, dente per dente”.


Le teorie preventive cercano invece un modo di scongiurare la commissione dei reati e lo trovano nel timore dell'inflizione della pena.

Le teorie preventive si dividono in teorie di prevenzione generale e di prevenzione speciale. Le prime si dividono a loro volta in due teorie separate: una ipotizza che la previsione della pena dissuada gli individui dal commettere reati, la seconda afferma che sia la constatazione dell'applicazione della pena ad agire da deterrente per le masse. Le teorie di prevenzione speciale affermano invece che l'applicazione della pena prevenga la commissione di reati dal parte del reo a cui la pena viene applicata, ma che non agisca funzione deterrente verso chi non la subisce.


Le teorie rieducative, spesso considerate una diramazione delle teorie preventive, mirano ad eliminare la pericolosità dell'individuo attraverso quello che viene definito un “trattamento terapeutico individualizzante, non commisurato alla gravità del reato”. Lo scopo della pena diventa quindi quello di riabilitare il reo e non di punirlo e dovrebbe essere applicata fino a quando le “esigenze terapeutiche” perdurano.

Queste teorie derivano dalle teorie filosofiche positiviste secondo le quali l'uomo nasce “buono”, ma può venire corrotto dalla società e dall'ambiente in cui cresce e vive. Per questo motivo parte della colpa viene imputata all'ambiente sociale e “punire” il reo diventa sbagliato in quanto ciò che ha fatto non è completamente colpa sua; per questo motivo si attua il processo di riabilitazione sociale del reo.


Approfondimento: la pena di morte


In Italia (1948) e in tutti i paesi europei, in linea con la Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, la pena di morte è stata abolita.

Uno dei primi oppositori di tale tipologia di pena Thomas More, filosofo inglese vissuto nel XV secolo che ricoprì la carica di Lord Cancelliere d'Inghilterra sotto il regno di Enrico VIII. Al tempo la pena di morte era inflitta allo stesso modo per ogni tipo di crimine: ad esempio, un ladro ed un assassino sarebbero stati entrambi puniti con la pena di morte, nonostante l'evidente differenza di gravità del reato.

Thomas More affermò allora che la pena di morte non fosse giusta per vari motivi:

Innanzitutto, egli era un sostenitore delle teorie positiviste prima nominate: ogni uomo nasce buono e diventa “cattivo” perché corrotto dall'ambiente sociale in cui cresce e vive. Nell'Inghilterra del tempo vigeva una grande disuguaglianza sociale e More ne era a conoscenza, ed imputava perciò l'alto tasso di criminalità all'incompetenza dei governanti (che nel suo libro “Utopia” paragonerà a “medici incapaci che peggiorano una malattia invece di curarla). More capisce inoltre che diversi reati hanno gravità diverse e dovrebbero essere puniti con sanzioni differenti e proporzionali al danno causato.

Egli era inoltre un cristiano devoto, e Dio nella religione cristiana proibisce espressamente di uccidere.

Le sue parole non furono però ascoltate ed egli stesso morì giustiziato per aver rifiutato di firmare l'Atto di Supremazia con cui Enrico VIII istituiva la Chiesa inglese facendosene capo.




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